«Non volere capire in assoluto la mafia in sé, quanto cercare di comprendere la mafia in me».
Facendo ricorso al vocabolario teatrale della sua Palermo – il corpo, il canto, il dialetto, il pupo, la recitazione, il cunto – Enia porta in scena una tragedia, ma anche una orazione civile, un confronto con lo Stato, una serie di domande a Dio in persona. E lo fa prendendo in esame un caso particolare, un vero e proprio spartiacque nella coscienza collettiva: il rapimento e l’omicidio di Giuseppe di Matteo, il bambino figlio di un collaboratore di giustizia, rapito, tenuto per 778 giorni in prigionia in condizioni spaventose e infine ucciso per strangolamento per poi venire sciolto nell’acido. Una storia disumana che si configura come l’apparizione del male, il sacro nella sua declinazione di tenebra.
«In una culla culturale in cui ’a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice”, la miglior parola è quella non detta, che si configura come prima soglia dell’omertà, affrontare per davvero Cosa Nostra significa iniziare un processo di autoanalisi. A Palermo tutti quanti abbiamo pochissimi gradi di separazione con Cosa Nostra. Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni, tornando a casa da scuola. Conoscevo il giudice Borsellino, abitava di fronte casa nostra, sono cresciuto giocando a calcio con suo figlio. E padre Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia, era il mio professore di religione al liceo». Con Autoritratto Enia scava a fondo in una realtà in cui la mafia rappresenta uno specchio della vita familiare, dei processi decisionali e operativi, del modo di osservare il mondo e intendere le relazioni, del rapporto con la religione. Una «nevrosi collettiva» da affrontare, sviscerare e con cui finalmente fare i conti.